sabato 11 maggio 2019
Inside
Mentre i cloni dell'indimenticabile Limbo si moltiplicano con alterni (in genere scadenti) risultati, la danese Playdead di Arnt Jensen torna sullo schema dell'indimenticato platform/puzzle, ma senza ripetersi.
Anche stavolta il protagonista è un bimbo che deve procedere in un mondo ostile e angosciante evitando (si fa per dire: a via di frustranti tentativi le vediamo tutte) morti cruente, saltando su piattaforme, azionando meccanismi, trovando soluzioni a volte inquietanti, spesso geniali.
Laddove Limbo puntava (vincendo) sulla semplicità con un bianco e nero sporco e atmosfere cupe e purgatoriali, qui la narrazione è sostenuta da un apparato grafico e sonoro immersivo più complesso e ugualmente (amo la semplicità di Limbo, ma va ammesso, dovevano superarsi e si sono superati) straordinario. Scenari e inquadrature sono costruiti con cura certosia, e creano un senso di inquietudine gradevolmente intollerabile.
La trama va scoperta pian piano osservando gli eventi e le trappole. Aiutiamo il nostro protagonista a fuggire da hangar e laboratori, inseguito da cani, da vigilanti e da sistemi di sicurezza tanto semplici quanto inesorabili, e man mano che procediamo scopriamo quanto sia terribile il destino cui sta provando a sottrarsi. Impossibile non provare pietà per i corpi che si trascinano stancamente come automi, ma a volte quei corpi ormai svuotati devono essere letteralmente usati senza troppo ritegno. (Occorre ricordare che, benché l'interattività renda tutto un po' ussss soprattutto ai più anziani fra noi, è comunque soltanto una storia.)
Non aggiungo altro. Se avete amato Limbo (e se non l'avete amato, amatelo) dovete assolutamente vivere l'esperienza di Inside.
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