lunedì 30 aprile 2018

Limbo


La danese Playdead di Arnt Jensen ha rispolverato un classico del mondo videoludico - anzi due: quello del platform e del puzzle game - dando vita a un gioco assolutamente splendido chiamato Limbo (e il più recente Inside, di cui parleremo appena mi riprendo da questa esperienza e decido di rituffarmi).

Sul piano tecnico Limbo è incredibilmente semplice. Niente mondi tridimensionali da esplorare in terza o prima persona, niente armi, soltanto un bimbo che deve fuggire dal suo limbo cupo e terrificante in un bianco e nero che a tratti richiama le atmosfere del cinema espressionista. Ombre, nebbie, rami e sagome sfocate, fumo e pioggia sono lo scenario essenziale e incredibilmente evocativo del gioco. Less is more: quello che non vedi fa immensamente paura perché può celare qualsiasi cosa, e guarda un po', non occorre un rendering tridimensionale a 60fps per fare una grafica meravigliosa e un gioco ammaliante.
La dinamica è essenziale (ma con significative sorprese): camminare saltare, azionare meccanismi evitando, se possibile, di far morire trapassato, falcidiato, affettato, trafitto, sprofondato, schiantato, annegato, schiacciato il tenero piccolo bimbo fatto di ombra. Anche qui il vago ha un potere immenso rispetto all'urlato: quanto sangue abbiamo già visto nei videogiochi? Eppure vedere un'improbabile sagomina nera infilzata dall'ombra di una zampa di tarantola è agghiacciante. Non tanto da non dormirci la notte, ma abbastanza da far venir voglia che lo spettacolo sadico e straziante della dipartita si ripeta il meno possibile. Siamo insomma di fronte a un classico gioco tenta/sbaglia/ritenta basato su quell'ineffabile equilibrio tra frustrazione e voglia di andare avanti, che fa smadonnare e urlare ma da cui è molto difficile staccarsi. Avete presente, vero? E sì, una volta i videogame avevano tutti questo effetto.


Il vero punto di forza di Limbo è dato dalle atmosfere angoscianti - ombre e luci, dicevamo, che contribuiscono a creare un senso di disperazione e di tempo sospeso; niente musica, semplici radi effetti sonori di atmosfera, che a volte aiutano e rivelano anche qualche dettaglio risolutivo sul gioco. Anche qui, less is more.
Un capolavoro assoluto insomma?
Sì, quasi. Ci sono livelli veramente difficili ma estremamente sensati, che è veramente un piacere risolvere. Qualche altro livello invece risulta eccessivamente e inutilmente esasperante, soprattutto sul finale, dalle parti dei capitoli 35 e 36, quando il racconto gotico inizia a cedere il posto al semplice puzzle game e i riflessi prendono un po' troppo peso rispetto alla logica. Solo qui, all'ennesimo tentativo, ho dovuto veramente cedere e consultare i walkthrough online per vedere se avevo capito bene quel che c'era da fare. Avevo capito bene e dovevo soltanto smadonnare ancora un po', premere il tasto giusto all'istante giusto. Va bene, hanno voluto creare un crescendo di difficoltà sul finire. Ho perso un po' la pazienza qua e là ma posso ritenermi soddisfatto, nessuno dei quaranta piccoli capitoli mi ha dato scacco.

In generale un gioco sfizioso, rilassante se preso a piccole dosi (tanto si riparte sempre dall'ultimo capitolo giocato), una bellissima esperienza videoludica. 

Voto: 25 Pn*.



* un Pn, o Pong, è l'unità di misura che ho scelto per i videogame. Un Pn equivale al piacere che si poteva provare nel 1978 a far rimbalzare una pallina quadrata su una racchetta rettangolare.







Nessun commento:

Posta un commento

Inside

Mentre i cloni dell'indimenticabile Limbo si moltiplicano con alterni (in genere scadenti) risultati, la danese Playdead di Arnt ...